La Ferrera (Antonella Giroldini)

L’ Agriturismo La Ferrera si trova  in una meravigliosa Valle vicina alla Riserva Naturale Regionale dei Monti Navegna e Cervia, in provincia di Rieti .

La riserva si estende per circa 3600 ettari all’interno dei bacini idrografici del fiume Salto e Turano, interessando il territorio di ben 9 Comuni: Ascrea, Castel di Tora, Collalto Sabino, Collegiove, Marcetelli, Nespolo; Paganico Sabino, Rocca Sinibalda e Varco Sabino.

La Riserva Naturale si caratterizza per la presenza di paesaggi eterogenei, frutto delle peculiarità climatiche, geomorfologiche e vegetazionali ma anche della presenza dell’uomo.
Ci sono i boschi montani e submontani (le faggete ed i querceti misti), i pascoli cespugliati che si stanno trasformando in giovani boschi, le praterie secondarie sulle sommità dei monti, i castagneti da frutto (con individui plurisecolari), le pareti carbonatiche che fanno da cornice ad alcuni torrenti, per finire con il “paesaggio delle dighe” originato dalla costruzione, sul finire degli anni 30, dei bacini idrici artificiali del Salto e del Turano.

 

E’ un oasi di pace in cui è possibile è possibile soggiornare, infatti, l’agriturismo offre ai propri clienti la possibilità di scegliere tra 6 camere (di cui 2 mansarde) , tre appartamenti. Il tutto immerso nel verde e a pochi metri dal ristorante e dal locale per idroterapia. Le camere sono tutte in arte povera, funzionali e ben arieggiate, dotate di riscaldamento autonomo ed ingresso indipendente.

La cucina è superba! Accolti come in casa da “Mamma Filomena” che verrà incontro ad ogni richiesta, con quel calore umano tipico di una sana famiglia, dove gentilezza, cordialità, ospitalità e simpatia sono la norma. Il segreto dell’eccezionale bontà dei piatti offerti è soprattutto la freschezza e la genuinità dei prodotti agroalimentari coltivati e preparati direttamente in azienda, come si faceva una volta, senza ricorrere all’uso della chimica, rispettando il benessere degli animali lasciati al pascolo brado e le stagioni, in un alternarsi e sovrapporsi di frutti ed ortaggi in un virtuoso ciclo naturale. Sono queste le qualità che troverete nella nostra cucina.

Ce n’è per tutti i gusti, è solo una questione di resistenza individuale, perché le portate sono esageratamente buone, scatenate i vostri sensi. Antipasti con affettati e salumi di propria produzione, pecorino locale di Vallecupola, fagioli con le cotiche, trippa, prodotti sott’olio realizzati in Agriturismo e ancora di più.

Tra i primi piatti tipici: polenta,  ravioli ripieni di ricotta e ortica, fettuccine ai funghi porcini, gnocchetti al tartufo, tonnarelli cacio e pepe, tonnarelli al limone, orecchiette di prete vegetariane, sagnacce, maltagliati e stringozzi (ovviamente tutto fatto a mano).

I secondi sia a base di carne che di uova provengono direttamente dall’allevamento. Potrete trovare: capretto, coniglio, pollo, tacchino, abbacchio, pecora, bistecche di manzo e di maiale, uova al tartufo e tante altre portate alla brace.

Contorni con insalate, legumi, verdure di stagione prodotte dall’orto, nonché la  rinomata cicoria di campo raccolta direttamente.

Per chi pernotta, la giornata inizia allegramente con una ricca colazione a base di crostate, biscotti, ciambelloni e marmellate fatte in casa, zabaione fatto con le uova fresche del mattino, ecc. ecc. E’ anche possibile acquistare i nostri prodotti tipici confezionati all’interno dell’azienda.

 

IL CASTELLO DI PALO (Antonella Giroldini)

Il castello di Palo è una fortificazione di epoca medievale situata a Palo, comune di Ladispoli (RM), oggi di proprietà della famiglia Odescalchi.

Le prime notizie di un insediamento fortificato si hanno nel 1132 quando truppe genovesi occuparono una cittadina vicina. Ma nel 1254 che viene per la prima volta citato “Castellum” e un “Castrum” Pali e al 1330 quando Palo appare di proprietà del Monastero di San Saba e poi affidato agli Orsini, rispettivamente, come proprietà dei Normanni e dei Monaci di S. Saba. Costruito molto probabilmente sotto il Pontificato di Pio I i Piccolomini,

Notevoli restauri furono eseguiti, tra il 1513 e il 1521, per volere di Leone X che soleva dimorare nel Castello durante le sue partite di caccia nel bosco di Palo.

Durante il decennio 1560-70, il Castello di Palo fu tra le fortificazioni costiere che subirono notevoli modificazioni.

Nel 1573 Paolo Giordano l Orsini vendette il Castello al Cardinale Alessandro Farnese per 25. 000 scudi, ma ritornò poco dopo agli Orsini ai quali lo restituì, nel 1589, Il Granduca di Toscana Ferdinando dei Medici.

.La vicinanza con Roma e la particolare posizione amena sul mare fecero di Palo un luogo di piacevole soggiorno per il proprietario che prese subito a cuore il riassetto del Castello ed in particolare la sistemazione accessoria esterna al Palazzo.

Sotto Ladislao I, figlio di Livio III,  il Castello, con il rifacimento delle finestre del fronte settentrionale, assunse l’ aspetto attuale. Oggi il castello continua ad essere abitato dalla famiglia Odescalchi.

ACQUAPENDENTE (Antonella Giroldini)

A km 12,5 da Bolsena, Acquapendente sembra debba le sue origini a un borgo di nome Arisa, cresciuto lungo la via Francigena attorno alla pieve di Santa Vittoria tra il IX e il X secolo.

In città si trovano una magione di templari, una chiesa e un monastero dedicato al Santo Sepolcro, i cui frati dipendevano direttamente omonima di Gerusalemme. In seguito alla donazione da parte di Matilde di Canossa di tutti i suoi beni alla Chiesa, il paese divenne feudo papale. In quest’epoca il paese si strutturò nelle sue linee urbanistiche: sulla destra del corso d’acqua si trovano il castello, l’abbazia del Santo Sepolcro e, forse, un borgo nato intorno alla Chiesa di S. Maria consacrata nel 1149; a sinistra si estendeva l’abitato sul crinale dei colli fino al poggio del Massaro ai piedi del quale si apriva la porta verso Siena, da cui si entrava in città il tratto urbano della Francigena che proseguiva fino alla porta che conduceva a Roma. La cittadina è la patria del famoso anatomico Fabrizio d’Acquapendente, che descrisse per primo le valvole cardiache e che fece costruire il primo teatro anatomico a Padova.  La Cattedrale è una basilica benedettina cui fu annessa una casa dei Cavalieri Templari; sulla destra della facciata è un portico con resti dell’edificio romanico. La cripta del Santo Sepolcro, della metà del X secolo, è una delle cripte romaniche più importanti d’Italia. 24 colonne sovrastate da capitelli decorati da figure animali e piante la dividono in nove navate e al centro si trova una scalinata che porta al sacello piramidale.

Nell’ambito del parco si trovano una serie di casali ristrutturati e utilizzati per il turismo scolastico e ambientale, uno dei quali ospita il Museo del Fiore  e illustra la varietà delle specie presenti sul territorio e conduce nel mondo del fiore, illustrandone aspetti evolutivi, ecologici e culturali, tra cui quello con la tradizione dei “pugnaloni” di Acquapendente. Cioè i grandi pannelli composti da fiori e piante che celebrano la battaglia per la libertà combattuta contro Federico Barbarossa e vengono esposti nella cittadina nella terza domenica di maggio.

Abbazia di Sant’Andrea in Flumine (Antonella Giroldini)

L’abbazia di Sant’Andrea in Flumine fu edificata su una collina compresa tra il Tevere e il monte Soratte, su una preesistenza di epoca romana, come ben testimoniano i resti di strutture murarie in opus reticolarum e i pavimenti a mosaico. Dall’VIII secolo i benedettini avviarono un’opera di rinnovamento e valorizzazione del territorio agricolo, rendendo il loro insediamento un punto di riferimento produttivo agevolato dalla presenza di un importante scalo fluviale, ora totalmente inagibile.
Il monastero, secondo il Chronicon di Benedetto, monaco di San Silvestro di Soratte, nacque grazie alla volontà della nobile Galla, moglie o figlia di Simmaco, consigliere di Teodorico che presto si ritirò sul monte dove fece edificare un cenobio (VI sec. ca). A livello documentario il monastero è citato per la prima vota in epoca carolingia, quando papa Paolo I lo donava a re Pipino il Breve (762). Nel 1074 il complesso divenne proprietà del monastero di San Paolo fuori le mura, sotto la cui giurisdizione rimase fino al XV secolo. Passato di commenda in commenda visse anni di declino irreversibile fino alla sua trasformazione in fattoria tra Settecento e Ottocento, tanto che solo nel 1959 ebbe il primo restauro che salvò in minima parte le antiche strutture in gran parte crollate.

La chiesa abbaziale
La chiesa si colloca in posizione dominante sulle pendici della Via Tiberina che domina e anticamente controllava con facilità.
L’edificio attuale corrisponde ad una ricostruzione del XII sec. della primitiva chiesetta voluta dall’abate Leone. Il complesso era circondato da torri di difesa, delle quali l’unica superstite si trova oggi in linea con l’abside della chiesa, poi sopraelevata per essere riadattata a campanile . L’edificio è a pianta basilicale, con tre navate terminanti in altrettanti absidi: quella sinistra è stata ricostruita, così come sono state in parte sostituite le colonne e il tetto a capriate lignee . La pianta dell’edificio risulta irregolare a seguito di un crollo delle prime quattro campate della navatella destra e al conseguente sovrapporsi della facciata di altre costruzioni posteriori. Per tale motivo l’ingresso oggi è spostato e la soglia è costituita da un bassorilievo di epoca carolingia.
L’esterno della chiesa mostra decorazioni con cornici a dente di sega e maioliche invetriate. All’interno le pareti erano ornate da affreschi di diverse epoche di cui restano tracce dei secoli VIII-IX e XV-XVI, mentre il catino absidale è decorato con una Resurrezione realizzata dopo il Mille, così come la Crocefissione sull’arco trionfale.
Il presbiterio è sopraelevato e mostra un pavimento originario in opus sectile, composto da un mosaico di lastrine di marmo e pietre tagliate nelle più diverse forme  . L’area sacra è chiusa da transenne e conserva un ciborio antico  con copertura ottagonale retta da colonnine, analogo a quello di San Paolo fuori le mura, datato attorno al XII secolo, in base ad un’iscrizione che reca anche i nomi degli autori. Si tratta di maestro Nicola con i figli Giovanni e Guittone.
Caratteristica peculiare della chiesa è la presenza dello jubé : un pontile simile all’iconostasi, che aveva lo scopo di separare il coro, riservato ai presbiteri, dalla navata riservata ai fedeli. Lo jubè è una struttura architettonica molto presente nella chiese gotiche, una tribuna, non solo con scopi organizzativo-gerarchici, ma anche simbolici infatti da essa venivano lette le Scritture, fungendo anche da ambone e pulpito. Il nome infatti deriva dalla formula di apertura utilizzata dal diacono che, salito sulla sua sommità, prima di iniziare a leggere la Parola di Dio si rivolgeva la sacerdote celebrante chiedendo la benedizione: Jube Domine benedicere, da cui jubè.
Lo jubè, spesso a tre arcate, a differenza dell’iconostasi era praticabile e aveva spesso una ricca decorazione scultorea come ancora si può ammirare nei posti esemplari rimasti (Duomo di Modena ,Abbazia di Vezzolano ;sì in Italia sono rimasti pochi esempi, infatti dopo il concilio di Trento si iniziò progressivamente a smontarli rendendo i pochi rimasti rare e preziose testimonianze liturgiche ed artistiche.

La flagellazione di Cristo ( Antonella Giroldini)

Eccoci nuovamente in compagnia di Caravaggio, il quale realizzò moltissime opere nel corso della sua vita molto movimentata e nella relativa carriera artistica. Il quadro che andremo ad analizzare oggi ha ancora come una volta per soggetto la figura di Cristo, come è avvenuto per il quadro “Ecce Homo” e anche “Incoronazione di spine.

L’opera, o meglio le opere che andremo ad analizzare oggi sono intitolate entrambe “Flagellazione di Cristo”, e sono due versioni realizzate sempre da Caravaggio, ma che risiedono in due luoghi differenti e che hanno delle differenze stilistiche importanti e che cercheremo di scoprire all’interno di questo articolo.

Data di produzione: 1607-1608

Dimensioni: 286 x 213 cm

Dove si trova: Museo nazionale di Capodimonte, Napoli

La prima versione del quadro “Flagellazione di Cristo” che andremo a scoprire è la versione risiedente a Napoli ed è una delle più grandi tele che Caravaggio ha realizzato mentre si trovava a Napoli.

Questo Caravaggio a Napoli è molto interessante ed essendo destinata al pubblico, Caravaggio decise di fare un lavoro molto interessante, cercando di donare maggiore realismo alla scena e di mettere in secondo piano invece l’aspetto più sacro della vicenda.

Si può notare che nello sfondo scuro della flagellazione di Cristo Caravaggio ci sono: al centro Gesù bloccato attorno alla colonna, un torturatore che invece sulla destra sta cercando di bloccarlo, e quello sulla sinistra che dà supporto al primo torturatore; aguzzando bene la vista è possibile notare che ai piedi della colonna è presente un terzo uomo che in posizione chinata, aiuta gli altri due a bloccare il prigioniero alla colonna.

Restando sempre su questi uomini che stanno bloccando Cristo, è possibile notare che sono stati rappresentati quasi come se avessero una smorfia sul proprio volto, come quasi se stessero effettuando un lavoro contro la loro volontà e sembra tra l’altro che non siano addestrati o preparati a fare ciò che stanno facendo.

Il corpo di Cristo è il punto più luminoso dell’opera, in netto contrasto con l’oscurità che domina la tela e che immerge i corpi dei torturatori; non solo luci ed ombre, ma anche i movimenti mettono in contrasto le figure: se da una parte sembra che Cristo sia in una leggera torsione e sembri quasi muoversi, dall’altra parte gli uomini sono stati rappresentati in una posizione statica, fissa e ben precisa.

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