MOSTRA MIRO’ ( Antonella Giroldini)

A partire dal 4 ottobre, nelle Sale Chiablese dei Musei Reali, SI è aperta al pubblico la straordinaria esposizione dedicata a uno dei massimi interpreti del Novecento, Joan Miró (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983). Per l’occasione saranno esposte 130 opere, quasi tutti olii di grande formato, provenienti dalla Fundació Pilar i Joan Miró a Maiorca, e capolavori come Femme au clair de lune (1966), Oiseaux (1973) e Femme dans la rue (1973).

Provengono dalla Fundacio Pilar i Joan Mirò di Maiorca, che grazie al prestito consente alla Città della Mole di ospitare la prima personale del pittore spagnolo.

La mostra, «Mirò. Sogno e colore», è promossa da Arthemisia, azienda leader nella produzione, organizzazione e allestimento di mostre, che conferma il suo rapporto privilegiato con Torino e con i suoi Musei Reali dopo il successo delle mostre di Tamara de Lempicka, Matisse e Toulouse-Lautrec. A presentarla oggi c’erano la direttrice dei Musei Reali, Enrica Pagella, che ha sottolineato la volontà di legare sempre di più i Musei alle grandi mostre per un percorso sempre più divulgativo, e il direttore della Fondazione, Francisco Copado Carraiero, che ha raccontato come le opere in mostra siano risalenti al periodo più felice dell’artista, dal 1956 al 1983, ovvero gli anni vissuti a Maiorca, dove Mirò morì.

 

CREATIVITA’ FANCIULLESCA

La mostra torinese immerge il visitatore nel mondo di Mirò e in quella fanciullesca creatività che caratterizzò la cosiddetta terza fase della sua vita, tutta vissuta tra le luci e le bellezze naturali della sua amata Maiorca. Oltre ai dipinti, sculture, disegni, libri illustrati, oggetti e materiali provenienti dai suoi atelier Taller Sert e Son Boter, sono infatti ricostruite le ambientazioni degli studi dove lavorava. «Un modo per capire un po’ di più le visioni di cui era capace questo artista – spiega Francisco Copado Carraiero – che leggeva la realtà che lo circondava attraverso il suo mondo onirico, soggettivo e magico. La sua arte, il suo stile hanno cambiato e segnato l’arte contemporanea per sempre».

A fare gli onori di casa oggi c’era anche l’assessore al Commercio e Turismo del Comune di Torino, Alberto Sacco, che ha sottolineato come la mostra sia il frutto di una sinergia tra Arthemisia, Regione Piemonte e Comune, «formula destinata ad essere usata sempre di più in futuro per mettere Torino in condizione di ospitare eventi culturali di grande appeal».

 

 

Orario apertura

lunedì 14.30 – 19.30

martedì, mercoledì, venerdì, sabato e domenica 9.30 – 19.30

giovedì 9.30 – 22.30

MOSTRA DI MONET A ROMA (Antonella Giroldini)

La mostra Monet, ospitata dal 19 ottobre  2017 all’11 febbraio 2018 nella sede del Complesso del Vittoriano  – Ala Brasini di Roma, propone 60 opere del padre dell’Impressionismo provenienti dal Musee Marmottan Monet di Parigi, quelle stesse opere che l’artista conservava nella Sua dimora di Giverny .

Monet trasformò la pittura en pleir air in rituale di vita e – tra la luce assoluta e la pioggia fitta, tra le minime variazioni atmosferiche e l’impero del sole – riuscì a tramutare i colori in tocchi purissimi di energia, riuscendo nelle sue tele a dissolvere l’unità razionale della natura in un flusso indistinto.

Il percorso espositivo rende conto, oltre che dell’evoluzione della carriera di Monet, anche delle sue molteplici sfaccettature, restituendo ricchezza artistica della sua produzione.

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DELLA SIBARITIDE (Antonella Giroldini)

Inaugurato nel 1996 in un nuovo edificio nei pressi dei Laghi di Sibari, area lagunare straformata in un porticciolo turistico, accoglie i materiali rinvenuti negli scavi della città e del territorio circostante.  Il museo accoglie materiali del periodo protostorico e arcaico rinvenuti nel territorio. Lo spazio maggiore è dedicato ai reperti urbani, con frammenti architettonici arcaici, ceramica sub geometrica greco – orientale o rodia, pettorali in lamina d’argento e oro sbalzata, ceramica importata da Corinto, Atene, Sparta, Ionia e dalle isole egee, statue e piccoli bronzi di età romana. Il reperto più noto è il Toro cozzante, statuina bronzea  simbolo della città di Thourioi. Importante è anche il gruppo di reperti da santuari del territorio, con terrecotte e statuette fittili.

La flagellazione di Cristo ( Antonella Giroldini)

Eccoci nuovamente in compagnia di Caravaggio, il quale realizzò moltissime opere nel corso della sua vita molto movimentata e nella relativa carriera artistica. Il quadro che andremo ad analizzare oggi ha ancora come una volta per soggetto la figura di Cristo, come è avvenuto per il quadro “Ecce Homo” e anche “Incoronazione di spine.

L’opera, o meglio le opere che andremo ad analizzare oggi sono intitolate entrambe “Flagellazione di Cristo”, e sono due versioni realizzate sempre da Caravaggio, ma che risiedono in due luoghi differenti e che hanno delle differenze stilistiche importanti e che cercheremo di scoprire all’interno di questo articolo.

Data di produzione: 1607-1608

Dimensioni: 286 x 213 cm

Dove si trova: Museo nazionale di Capodimonte, Napoli

La prima versione del quadro “Flagellazione di Cristo” che andremo a scoprire è la versione risiedente a Napoli ed è una delle più grandi tele che Caravaggio ha realizzato mentre si trovava a Napoli.

Questo Caravaggio a Napoli è molto interessante ed essendo destinata al pubblico, Caravaggio decise di fare un lavoro molto interessante, cercando di donare maggiore realismo alla scena e di mettere in secondo piano invece l’aspetto più sacro della vicenda.

Si può notare che nello sfondo scuro della flagellazione di Cristo Caravaggio ci sono: al centro Gesù bloccato attorno alla colonna, un torturatore che invece sulla destra sta cercando di bloccarlo, e quello sulla sinistra che dà supporto al primo torturatore; aguzzando bene la vista è possibile notare che ai piedi della colonna è presente un terzo uomo che in posizione chinata, aiuta gli altri due a bloccare il prigioniero alla colonna.

Restando sempre su questi uomini che stanno bloccando Cristo, è possibile notare che sono stati rappresentati quasi come se avessero una smorfia sul proprio volto, come quasi se stessero effettuando un lavoro contro la loro volontà e sembra tra l’altro che non siano addestrati o preparati a fare ciò che stanno facendo.

Il corpo di Cristo è il punto più luminoso dell’opera, in netto contrasto con l’oscurità che domina la tela e che immerge i corpi dei torturatori; non solo luci ed ombre, ma anche i movimenti mettono in contrasto le figure: se da una parte sembra che Cristo sia in una leggera torsione e sembri quasi muoversi, dall’altra parte gli uomini sono stati rappresentati in una posizione statica, fissa e ben precisa.

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The Art of Brick, all’Auditorium la mostra di opere Lego (Antonella Giroldini)

Dopo il successo di pubblico dello scorso anno, con oltre 120mila presenze è tornata a Roma, all’Auditorium Parco della Musica , dal 9 dicembre al 26 marzo 2017, The Art of the Brick, una mostra di opere composte con i fantastici mattoncini Lego.

Per la nuova edizione le 70 opere in esposizione saranno accompagnate da tante le novità. Le eccentriche e fantastiche sculture sono il frutto della genialità dell’artista statunitense Nathan Sawaya.

Il lavoro di Nathan Sawaya non è passato inosservato, infatti la CNN lo ha inserito tra le dieci mostre da vedere nel mondo soprattutto dopo aver conquistato New York, a Los Angeles, da Melbourne a Shanghai, da Londra a Singapore.

Le 70 opere d’arte, create con oltre un milione di mattoncini Lego, di dimensioni importanti spaziano dalla semplice figura umana alla riproduzione di grandi opere artistiche, come la Gioconda di Leonardo Da Vinci, La ragazza con l’orecchino di Perla di Vermeer e L’Urlo di Munch, fino ad istallazioni maestose come lo scheletro del T-Rex (80.000 mattoncini), la Cappella Sistina e la Notte Stellata di Van Gogh.

Per concludere la mostra comprende anche una zona interattiva dove i giovani sono invitati a mettere alla prova la loro creatività utilizzando i lego e, magari prendendo spunto da quello che hanno appena visto, creare quello che più gli piace.

ILEX Gallery : Vivian Maier (Antonella Giroldini)

Quando nel 1987 la rock band irlandese degli U2 pubblicò la canzone “Where the Streets Have No Name”, cantando e suonando contro l’anonimato delle società divise e di divisione, in cui l’indirizzo di una persona, l’accento, il colore della pelle, il sesso, lo stato mentale o l’abbigliamento possono determinare, in base alla nostra valutazione, la sua vita e le sue conquiste personali, una fotografa di strada ancora sconosciuta stava scattando a Chicago quelle che probabilmente sarebbero state le ultime immagini di una costante e produttiva documentazione.

Iniziò circa 35 anni prima, con la sua Rolleiflex per le strade di New York – da autodidatta, con grande talento, spinta e persistenza – fotografando le persone e le strade come icone istantanee. Il suo lavoro può essere affiancato a quello dei grandi fotografi di strada del 20° secolo, molte delle sue immagini infatti ricordano fotografie che abbiamo visto da Lewis Hine, Ilse Bing, Lisette Model, Dorothea Lange, August Sander, Robert Frank, Helen Levitt, Louis Faurer, Diane Arbus, Weegee, Lee Friedlander, o Joel Meyerowitz, per nominarne alcuni. Lei sembra averli incanalati tutti, anche coloro che sono stati da lei preceduti, in quello che la critica del New York Times Roberta Smith chiama “un rigore quasi enciclopedico” nel riassumere “la storia della fotografia di strada del 20° secolo”. In seguito, il suo nome, Vivian Maier (1926 – 2009, americana), dovrebbe essere incluso negli annali della fotografia di strada.

Il problema fu che tutte le sue immagini rimasero nascoste alla vista del pubblico fino alla fine della sua vita. Fino a quel momento nessuno era ancora a conoscenza della quantità e della qualità del suo lavoro, lei stessa infatti non sapeva che la sua produzione fotografica, circa 100.000 negativi, era stata scoperta due anni prima della sua morte. Così ella morì credendo che le sue pellicole fotografiche, i video e le registrazioni audio fossero ancora rinchiuse in scatole su scatole fra i suoi effetti personali in un luogo di deposito di Chicago – che era “[riparato] dalla pioggia avvelenata” (U2).

La maggior parte dell’impressionante numero di sue fotografie devono ancora essere rese pubbliche. Guardando  i provini dei suoi negativi, che contengono pochissimi scatti multipli di qualsiasi motivo o soggetto, ci si rende conto dell’incredibile quantità di straordinarie fotografie per ogni rullino fotografico. In termini matematici, ha catturato circa 12 fotogrammi, o un rullino di pellicola di medio formato al giorno, tutti i giorni per circa 40 anni. Dato che solo poche centinaia di immagini scattate da Vivian Maier attualmente circolano nel mondo all’interno di mostre e libri, ci possiamo ancora aspettare da lei una quantità enorme di futuri classici. Solo il numero di immagini iconografiche, prodotte da un singolo fotografo che ha lavorato a tempo pieno per tutta la vita come aiuto domestico e tata, è da capogiro.

Quello che possiamo supporre nel guardare le note fotografie di Vivian Maier è che spesso vagava in strade sconosciute mentre lavorava e non, esplorando a lungo il mondo intorno a lei con la macchina fotografica puntata su queste deviazioni, una pratica non dissimile da quello che i Situazionisti avevano definito dérive. Lei era un’imparziale opportunista che ritraeva persone provenienti da tutti i ceti social ma con la mente critica e l’occhio di un’osservatrice politicamente coscienziosa. Le sequenze inedite di immagini su ogni rotolo di pellicola spesso vengono lette come dei fantastici storyboard che la seguono attraverso le strade ed i giorni della sua vita. Come spettatori delle sue fotografie assistiamo al suo costante sguardo indagatore, alla sua messa in discussione del mondo com’era allora, il maschilismo, il classismo ed il razzismo quotidiano nelle strade di New York, ma anche la bellezza ed il puro piacere della vita vissuta.

La prima mostra in una galleria di Vivian Maier a Roma con 33 stampe in gelatina d’argento presso 10b Photography Gallery .