Le sculture imponenti e instabili di Phyllida Barlow paiono simulare aspetti trascurati del paesaggio urbano – pile di macerie, ponteggi o mucchi di materiale di scarto – che l’artista reiventa servendosi di un arsenale degno di bricoleur. In opposizione alla sua formazione accademica adotta materiali economici e di recupero, con i quali da vita a oggetti biomorfi che ricordano le astrazioni più sensuali di scultori postminimalisti come Eva Hesse. Ha sviluppato una sorta di ecosistema artistico all’interno del quale ricicla e utilizza le sue sculture, smantellandole e riconfigurandole in nuove combinazioni.
Molta della sua produzione consiste in sculture di grande formato, apparentemente precarie , che spesso l’artista adatta a ogni specifico ambiente espositivo per occupare lo spazio con ostacoli e intralci.
l’invadenza di queste opere – che pendono minacciosamente dal soffitto o compongono estrosi agglomerati disseminati negli spazi della mostra – monomuntalizza i detriti della vita contemporanea, che l’artista raccoglie, cataloga e trasforma.